domenica 30 luglio 2017

Il tagliacarte


Racconto di 
Vespina Fortuna

Tratto da “Donne maledette”

(ap) Una raccolta di storie (immaginarie) di donne che hanno vissuto sulla loro pelle un orrore, diverso per natura, ma sempre lacerante, affrontato con una forza disperata, alla ricerca di una via di uscita, forse impossibile da trovare.

In quel periodo non navigavamo in buone acque. Mio padre aveva trascorso gli ultimi anni della propria vita a cercare di rimediare agli errori di mio fratello e alla fine si era arreso. Aveva gettato la spugna lasciandoci tutte in un mare di guai. Avevamo i creditori alla porta e i carabinieri dentro casa. A quel tempo ero ancora una ragazzina, ma sentivo già il bisogno di fare qualcosa anche io per riportarci tutte a galla. 

La mamma, ormai alla deriva da un pezzo, navigava sulla zattera della commiserazione e le altre mie sorelle, chi più chi meno si erano rimboccate le maniche e avevano iniziato a remare. Forza di remare, io non l’avevo ancora, ma coraggio e intraprendenza non mi mancavano. Fu così che un giorno decisi di rivolgermi a quello che un tempo era stato un caro amico di mio padre e che adesso era diventato un uomo di affari facoltoso.
Entrai nel suo ufficio con la moquette alta un palmo, le vetrate al posto delle pareti, la scrivania di mogano e le poltrone comode e confortevoli come letti. La filodiffusione col volume al minimo mandava il notturno di Chopin e incorniciava quella stanza profumata e ovattata con un senso di pace ed armonia.
L’uomo mi sorrideva distratto mentre avrebbe voluto che lasciassi da parte i preliminari e mi concentrassi sul problema vero e proprio per poter concludere “quella pratica” nel più breve tempo possibile.
Mi feci coraggio ed esposi il nostro caso, senza cadere nel pietismo e nel compatimento. I fatti erano semplici e chiari: gli errori, le follie e le castronerie di mio fratello ci avevano trascinati in una situazione molto difficile e avevamo bisogno di un aiuto economico che avremmo restituito a rate, nel più breve tempo possibile.
Il suo discorso invece, a differenza di quanto mi aspettassi, fu lungo tortuoso e sviante. Mi parlò del momento critico del Paese, della profonda amicizia che aveva avuto per mio padre, della sventatezza di mio fratello, della fragilità di mia madre... Tutte cose che già sapevo e che avevo deciso di omettere per andare al punto che le sue dita tamburellanti mi avevano richiesto.
Poi parlò del mio futuro, dell’incertezza che la società riservava ai giovani e ai pericoli che avrei dovuto affrontare senza l’appoggio di un padre e con lo sgambetto continuo di un fratello tanto scellerato. Mi disegnò la mia famiglia come una specie di piovra che anziché aiutarmi a crescere mi avrebbe tirato a fondo. Dovevo fuggire a gambe levate e in fretta. La sua voce pacata e suadente mi ricordò il sibilo di una serpe e cominciai a sentirmi prigioniera.
D’un tratto mi si accostò sfiorandomi il viso con la mano rugosa e mi carezzò i capelli. Se avessi voluto restare avrebbe pensato lui a risistemare i problemi finanziari della mia famiglia. Mi stava offrendo una riva tranquilla sulla quale ricominciare a vivere in serenità.
Immaginai lo sguardo di mia madre farsi sereno, pensai alle mie sorelle tornare allegre e spensierate e per un attimo fui tentata di mangiare quella mela avvelenata, poi per fortuna mi risvegliai e compresi che non era quello ciò che ero venuta a chiedergli. Non potevo vendergli l’anima per risollevare le sorti dei miei cari, benché tanto cari, e che nessuno di loro, nemmeno quel debosciato di mio fratello avrebbe mai desiderato che mi concedessi come vittima sacrificale.
“Che cosa mi stai offrendo?” gli chiesi a bruciapelo “E qual è la ricompensa che mi chiedi?” “Ti offro una vita da regina e ti chiedo solo di incontrarci di quando in quando. Non preoccuparti, rimarrà il nostro segreto, solo tu ed io, nessun altro sarà a conoscenza del nostro patto.” “Mi stai comprando, dunque? Stai comprando l’ultima figlia del tuo migliore amico, quella che fino a qualche anno fa, tenevi sulle ginocchia? E dimmi, già allora, mi desideravi?”
“Non ti sto comprando, sciocchina. Ti ho amata da sempre e mi hai attratto già nella culla. Sono anni che aspetto questo momento e oggi, se vorrai, tu potrai esaudire i miei sogni ed io i tuoi.” Mi prese per le spalle e mi avvinghiò con le sue spire viscide. Fu un attimo. Afferrai il tagliacarte e lo colpii senza sapere dove finisse ogni volta la sua punta.
“Eccomi qua, questo è tutto, signor giudice.” “Si dichiara dunque colpevole del ferimento dell’uomo qui presente?” “Sì, l’ho colpito io. No, questo non è un uomo, è un serpente.” “Moderi i termini, signorina e si attenga alla domanda senza commentare.” Poi stette silenzioso, guardò gli incartamenti che aveva fra le mani, ma non sembrava che leggesse.
Pareva piuttosto che ripensasse a qualcosa di privato, un ricordo doloroso che gli faceva stringere gli occhi e ingoiare a fatica la saliva. “Mi riservo di decidere. La seduta è aggiornata a domani, stessa ora.” Prima di uscire dall’aula mi guardò e mi sorrise. In quel momento compresi che sarei stata assolta il giorno dopo. E così fu, libera da ogni colpa.
Eppure dopo tanti anni, ancora oggi, prima di addormentarmi penso che avrei potuto ucciderlo. Quel ricordo mi raccapriccia, ma ogni volta mi chiedo se a farmi più orrore sia l’idea che avrei potuto farlo o la consapevolezza che esistano uomini tanto ripugnanti.

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